L’ambizione, parafrasando le sue parole, è creare un museo vivente del vegetale, un luogo dove si conservano verdure, comprese quelle rare o quasi estinte
Una mattina di novembre guidavo per le campagne intorno al lago di Bolsena e cercavo di ricostruire il momento in cui ho iniziato a interessarmi delle persone che vivono a indirizzi raggiungibili solo con le specifiche indicazioni di chi ci abita, poiché ancora nessun colosso del digitale è al corrente delle strade per arrivarci.
Le indicazioni quella mattina includevano come punti di riferimento: i campi sportivi, la fine dell’asfalto, una cassetta della posta gialla. Spesso quelle persone sono le stesse che mi danno appuntamento alle otto di mattina, due abitudini queste – vivere remoti e svegliarsi presto – che convivono, nella mia esperienza, in un preciso genere di umanità, gli agricoltori.
“Non è virtuosismo o snobismo, è una questione di ricerca, di ascolto delle piante. Lavorare con la diversità è essenziale anche per abituarsi alla diversità in altri ambiti dell’esistenza”
La vista sul lago di Bolsena dai terreni dell'azienda. Tutte le foto dell'autrice.
Facevo, però, ancora fatica a immaginare come un agricoltore la persona che stavo andando a trovare perché per me Jonathan Nossiter era soprattutto un regista e in particolare il regista di Mondovino, un film documentario del 2004 che raccontò la frattura profonda del mondo del vino, tra la forza omologante del mercato guidato dalle grandi aziende, dai critici e dagli enologi di fama, e il lavoro dei produttori legati alle identità territoriali e ai metodi artigianali.
Una storia che oggi abbiamo sentito tante volte, ma che allora era tutta da raccontare, soprattutto al di fuori del settore, tanto che il film fu selezionato in concorso al Festival di Cannes. Fece abbastanza clamore all’epoca e negli anni è rimasto una pietra miliare per chiunque si interessi di vino, di un certo tipo di vino, per esempio io ne conservo gelosamente il dvd pur non possedendo più alcun lettore dvd.
Dieci anni dopo girò un altro documentario sul vino, stavolta tutto in Italia, e a quel punto la parola “naturale” era già abbastanza sedimentata da entrare anche nel titolo: Resistenza naturale. La sua vicenda da regista va ben al di là del vino, ma possiamo dire che è stato il vino a fargli cambiare strada, a portarlo sempre più dentro all’agricoltura fino a non lasciarlo più andare. E così, a sentire lui, il suo film più recente, Last Words (2020) con Nick Nolte, Charlotte Rampling, Stellan Skarsgård e Alba Rohrwacher, che uscirà al cinema in Italia a giugno, è anche l’ultimo. Finito quello, si è ritirato in un podere affacciato sul lago di Bolsena per costruire un’azienda agricola con un proposito abbastanza radicale da essere a suo modo cinematografico, almeno nel coraggio di immaginare.
Raccogliamo qualcosa per il pranzo: cavolo nero, un antico broccolo leccese che si chiama mugnolo, una cipolla conosciuta come rossa lunga fiorentina, qualche melanzana paccia di Rofrano del Cilento, tonda e arancione
Un'altra veduta dell'azienda. Tutte le foto dell'autrice.
Mentre iniziava a raccontarmi della sua nuova vita, mi sforzavo di sovrapporre la mia idea di Nossiter – americano, brasiliano, forse anche po’ francese, che ha vissuto in cento posti del mondo e ha fatto tre film con la divina Charlotte Rampling – alla persona che avevo davanti e che mi stava offrendo un tè. Mi sono trasferito qua nel 2015, mi dice, nonostante il coro degli amici cittadini che mi davano del pazzo: c’era ancora da aprire la strada in un bosco di rovi, ci voleva un’ora per arrivare dal paese più vicino che è Castel Giorgio, duemila anime sul confine tra Umbria e Lazio.
L’anno dopo è nato l’Orto Vulcanico La Lupa, che da allora è cresciuto e si è assestato fino a diventare quello che è oggi: un orto-fattoria dove si coltivano centinaia di varietà di ortaggi, più di cento di soli pomodori, che vengono poi lavorati e venduti sotto forma di conserve. L’ambizione, parafrasando le sue parole, è creare un museo vivente del vegetale, un luogo dove si conservano verdure, comprese quelle rare o quasi estinte, sia come testimonianza di un pezzo di mondo a rischio a causa delle monoculture industriali, sia come fonte per rimettere in circolazione semi altrimenti introvabili.
Manifesti cinematografici e attrezzi agricoli nel magazzino dell'Orto Vulcanico La Lupa. Tutte le foto dell'autrice.
Il luogo che ha scelto per la sua impresa non è casuale, perché il lago di Bolsena ha origine vulcanica, e vulcanica è la terra che lo circonda, ricca di minerali e molto fertile o, per dirla con le parole di Nossiter, che esplode dentro. Un suolo promettente per l’agricoltura e per la viticultura, tanto che qui intorno si sono insediati diversi produttori di vino naturale.
Una terra, bisogna segnalarlo, che però è sotto l’assedio delle monoculture di nocciole (22 mila ettari nella sola provincia di Viterbo, col progetto di altri 10 mila entro il 2025) che trattano il territorio con una logica puramente estrattiva, compromettendone gli ecosistemi (il vicino lago di Vico è già in stato avanzato di eutrofizzazione per l’alta concentrazione di fitofarmaci nelle acque).
I terreni dell’azienda si sviluppano intorno alla casa, sono circa quattro ettari in cui si alternano particelle di orto, di cereali, alberi da frutto e tratti di bosco. C’è anche un laghetto artificiale per la fitodepurazione e la serra-vivaio dove si fanno le piantine prima di trasferirle in campo. Nel nostro giro portiamo cibo alle capre, alle galline, alle anatre. L’uliveto è l’appezzamento più distante, collegato da un sentiero impervio nel bosco, che percorro affannandomi dietro alle falcate entusiaste di Nossiter per assistere alle ultime ore di raccolta delle olive, che è l’attività saliente di questi giorni, oltre alle semine.
“Nossiter coltiva senza alcun concime, diserbante o pesticida di sintesi chimica, tenendo le diverse varietà a contatto ravvicinato tra loro. Anzi vorrebbe mischiarle sempre di più”
Nell’orto – è autunno inoltrato quando gli faccio visita – resiste eroico qualche pomodoro, ma a dominare sono ovviamente i cavoli. Raccogliamo qualcosa per il pranzo: cavolo nero, un antico broccolo leccese che si chiama mugnolo, una cipolla conosciuta come rossa lunga fiorentina, qualche melanzana paccia di Rofrano del Cilento, tonda e arancione. Sono tutte varietà locali (cioè varietà di diversi territori, adattate in campo nel corso del tempo, attraverso il lavoro dei contadini), oggi difficili da trovare perché soppiantate dagli ibridi – varietà ibridate nell’ottica di massimizzare uniformità e rese. Nossiter coltiva senza alcun concime, diserbante o pesticida di sintesi chimica, e tenendo le diverse varietà a contatto ravvicinato tra loro, anzi mi dice che vorrebbe mischiarle sempre di più.
Jonathan e Suleiman durante la semina del grano Solina. Tutte le foto dell'autrice.
L’entità dell’operazione diventa ancora più lampante quando entriamo nella stanza-archivio dei semi, che ospita vari armadi pieni di bustine; su ognuna è scritto a mano il nome della varietà e la data di raccolta. La collezione più vasta è quella dei pomodori, da cui pescando a caso saltano fuori il gigante di Torino, il giallo di Capaccio, la tigrella bicolore, il rosa di Rofrano, la Grosse Hative d’Orléans e lo scatolone di Bolsena, una varietà abbastanza nota eppure poco coltivata – Nossiter mi dice di averla cercata a lungo prima di scovarne i semi da un contadino della zona.
Le conserve. Tutte le foto dell'autrice.
Le conserve. Tutte le foto dell'autrice.
I semi che asciugano sul davanzale della finestra. Tutte le foto dell'autrice.
Di fianco all’archivio c’è la sala di lavorazione delle conserve, dove i pomodori diventano salse o pelati. Lavoriamo con interventi delicati, mi spiega, dai tagli dei pomodori alla temperatura del bagnomaria, che non supera gli 85 gradi per non impoverire le qualità organolettiche. Il raccolto del 2021 è sugli scaffali, il colore dentro ai barattoli va dal giallo al rosso mattone, passando per vari toni di rosso.
Le conserve sono monovarietali, mi dice, perché vogliamo studiare le singole varietà, come cambiano in funzione della data di raccolta, ma anche del tipo di terreno in cui crescono e della quantità di acqua d’irrigazione. Questo fa sì che di alcune varietà abbiamo cento barattoli, di altre solo tre o quattro. Non è virtuosismo o snobismo, insiste, è una questione di ricerca, di ascolto delle piante, di esaltare le singolarità dei pomodori e la loro espressione del terroir. Lo so che è un incubo commerciale, aggiunge, ma lavorare con la diversità è essenziale anche per abituarsi alla diversità in altri ambiti dell’esistenza.
Il pranzo. Tutte le foto dell'autrice.
Lo studio sulle varietà prosegue in cucina, con l’aiuto della cuoca e principale collaboratrice dell’Orto Vulcanico, Valentina Bianchi. Con lei, mi spiega, stiamo cercando il miglior modo di rispettare l’integrità dei sapori, ad esempio ci sembra che le dominanti del gusto dei pomodori siano tre: una minerale, una vegetale e una fruttata. Per pranzo assaggiamo una salsa di pomodoro lampadina, che ha una dolcezza piena e saporita, e una di ciliegino da raccolta precoce, che è più acido con una punta di amaro. Per secondo abbiamo il persico di lago in una salsa di piennolo giallo, con una freschezza che riverbera nella punta di limone che Valentina aggiunge alla fine.
“Una riscoperta delle verdure, della ricchezza orticola che abbiamo e che rischiamo di perdere è importante, ma per gli agricoltori oggi non ci sono riconoscimenti, non c’è glamour”
Jonathan Nossiter. Tutte le foto dell'autrice.
Una varietà locale di pomodoro. Tutte le foto dell'autrice.
È chiaro che questo tipo di approccio agricolo e gastronomico rimanda a quello del vino, e anzi Nossiter insiste proprio sulla necessità di contagiare le verdure con un po’ dell’attenzione che dedichiamo al vino, senza per forza sconfinare, precisa, nelle derive ridicole del suo linguaggio (nel suo passato c’è anche l’aver fatto il sommelier a New York). Lo so che sembra un po’ folle quello che facciamo qui, dice, ma anche dei primi vignaioli naturali si pensava la stessa cosa. Cita Cascina degli Ulivi, Pacina, La Stoppa e altri, anche loro erano soli all’inizio e guarda dove siamo oggi.
Una paragonabile riscoperta delle verdure, della ricchezza orticola che abbiamo e che rischiamo di perdere, è altrettanto importante, continua, ma per gli agricoltori oggi non ci sono riconoscimenti al talento, non c’è glamour. Io sono un agricoltore “nuovo”, sto imparando, mi faccio aiutare, ascolto, studio, sperimento, ma spero comunque di aprire uno spazio, lanciare idee, incoraggiare altri, e se c’è qualcosa di fecondo si riprodurrà. Sono innamorato di quello che faccio, me lo ripete più volte.
Parlare di lotta politica in agricoltura è oggi una componente essenziale nel più ampio percorso di attivismo climatico, anzi credo ne sia uno dei nodi centrali.
L'archivio dei semi di ortaggi. Tutte le foto dell'autrice.
L'archivio dei semi di ortaggi. Tutte le foto dell'autrice.
Nel pomeriggio ci aspettava la semina del grano Solina a cui ho partecipato volentieri. Il vento non ci ha lasciato stare un attimo per tutto il giorno e le nuvole hanno continuato a contorcersi fino al tramonto, costringendoci a seguire i loro giochi di luce con la coda dell’occhio. Parlare di lotta politica in agricoltura è oggi una componente essenziale nel più ampio percorso di attivismo climatico, anzi credo ne sia uno dei nodi centrali.
Lo crede anche Nossiter, che ha ribaltato la sua vita proprio per fare la sua parte; e proverà a mostrare, mi dice, che l’agricoltura virtuosa e artigianale non è per forza un’agricoltura elitaria. Che questa lotta ambientale, culturale, si fa anche collezionando pomodori e scoprendo che fino a un attimo prima non ne conoscevamo il sapore.
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